martedì 19 maggio 2015

Fenice d'ambra



Mamma non mamma NEOS EDIZIONI


La guardo e mi sembra un’estranea. Fatico a riconoscerla. 
Non ha più nulla della bambina che era sino a pochi mesi fa e nemmeno della donna che crede di essere. Penso che non si piaccia. Anzi, ho la certezza che nemmeno lei si riconosca guardandosi allo specchio.
La cosa grave è che non conosce neanche me e, quando mi fissa con quegli occhi scuri, il suo sguardo arrabbiato, confuso e soprattutto smarrito mi incute timore. 
Vorrebbe non avere bisogno di nessuno, decidere da sé della propria vita e nello stesso tempo frena se stessa e le sue emozioni, evitando di sfiorarmi. Io sono quella cattiva, lei la vittima. 
Io quella che deve dire di no per ruolo. Lei quella che deve contraddirmi. Entrambe siamo entrate benissimo nella parte.
Io e lei. Lei e io.
Ci osserviamo di sbieco studiandoci e siamo le stesse due estranee che eravamo quindici anni fa.

Infertilità.  Non era stata una sentenza definitiva. La parola suonava meno ridondante di sterilità e mi lasciava una speranza. La possibilità di diventare madre c’era anche se seppellita sotto un mucchio di visite, esami, ecografie, spermiogrammi. 
Diventavo, man mano che il tempo passava, sempre più nervosa e acida, alla ricerca morbosa di una maternità che ritenevo fosse un mio sacrosanto diritto. 
Volevo un figlio.
Nient’altro. 
Non potevo fossilizzarmi sulla parola infertilità.
L’ossessione di ricercare il figlio rivestiva la vita mia e quella di mio marito: rapporti mirati, induzione all’ovulazione, prelievi sanguigni per dosare gli ormoni presenti nel sangue in quella tal ora di quella tal data. Le corse dal medico, i cateteri per spingere lo sperma attivato con proteine, l’attesa e poi, puntualmente dopo pochi giorni; il ciclo. 
Il fallimento. 
Il destino beffardo. 
I pianti e di nuovo la maledetta parola. Infertilità. 
Ero giovane. Quelli avrebbero dovuto essere gli anni più belli della mia vita, invece li ho avvelenati alla ricerca del figlio che non veniva.
Nel vortice ossessivo, naturalmente era inserito anche il mio compagno.
In realtà non gli ho mai domandato cosa desiderasse.
Ero troppo proiettata sull’obiettivo di aggiudicarmi il mio diritto alla maternità che davo per scontato fosse così anche per lui; Il raggiungimento dell’obiettivo comune ci teneva uniti, facendoci roteare e scontrare come due atomi impazziti. Io vivevo nella mia depressione latente e costante che attribuivo alla mia incapacità di fare figli. 

Sino a quando…

Il test non poteva sbagliare. Due lineette!
Identifico quel momento come il più emozionante di tutta la mia vita e so, che se anche dovessi vivere sino a cent’anni, quella sensazione non la proverò più. Il sogno di diventare madre era lì.
Tutto in quel piccolo oggettino, con le due linee nette, che mi regalavano il sogno. Aspettavo un bambino! Non posso descrivere la gioia, l’ansia e l’emozione di quel momento, senza sentire ancora addosso i brividi.
Ridevo, piangevo e pensavo al mio bambino che avrebbe visto la luce entro pochi mesi. Il periodo seguente alla notizia, non fu semplice. Immediatamente, i miei timori di perdere il piccolo, si trasformarono in ansia. 
Vivevo nella costante paura che qualcosa andasse male, non funzionasse.
Lui c’era. Era lì dentro di me e doveva crescere.
Dovevo essere la sua culla, la sua casa. Non potevo fallire, altrimenti avrei visto sgretolarsi ancora il miraggio, la mia possibilità di diventare una mamma. 
Ricordo la notte seguente al test di gravidanza. Mio marito non era in città e la sua gioia passava attraverso il filo del telefono al punto tale, che il bambino che al momento era solo un piccolo embrione fecondato, gridava già dentro di me, occupando il mio cuore in modo totalizzante.
I primi mesi di gravidanza trascorsero ansiosi ma senza scosse.
Iniziavo a entrare nell’idea che presto la mia bambina (perché nel frattempo avevamo saputo che era una femmina) sarebbe nata, quando iniziai a non stare bene. Non si trattava di un vero e proprio dolore, ma un movimento sordo, un disagio, a cui prima non volli dare peso, convinta che fosse frutto della mia apprensione, sino a quando il medico che seguiva la mia gravidanza mi fece ricoverare, diagnosticandomi una minaccia d’ aborto.

Mi inserii in una sorta di automatismo che mi spingeva ad avere la certezza che avrei perso la mia bambina. Mi staccavo sempre di più dall’idea di riuscire a diventare madre, riuscendo a stabilire un vero e proprio distacco psicologico dalla mia bambina.
Si era innescato in me un senso di autodifesa che mi impediva di attaccarmi ulteriormente alla creatura che portavo in grembo. Trascorrevo le giornate a letto. Mi era stato fortemente sconsigliato di muovermi per permettere all’utero di fare meno fatica.
Facevo ciò che mi era possibile per tutelare la bambina assumendo i farmaci necessari, ma nello stesso tempo, non potevo fare a meno di pensare che non ce l’avrei fatta. 
Mi staccai dalla mia creatura al punto, da ricordare il periodo in cui l’avevo fortemente desiderata, con un distacco tale da non provare più né gioia né emozione.

Oggi, comprendo che nel terrore di perderla, temendo di smarrire la ragione, per una tutela automatica mi staccavo da lei come se non esistesse. Eppure, nonostante il mio pessimismo la gravidanza arrivò a termine. In una calda notte d’estate nacque Sara. Ricordo ancora le ore del travaglio con grande chiarezza. 
Stava per nascere mia figlia!
Ce l’avevo fatta! Insieme avevamo lottato e vinto.

Ho sentito il suo vagito quando lei era ancora dentro di me. La voce squillante, che gridava tutta la sua rabbia per essere uscita da quella che era stata la sua casa per nove mesi, mi rendeva felice. 
Io guardandola per la prima volta, compresi che mai avrei vissuto la gioia di quei momenti e, stringendo la bambina che mi fissava con due occhi spalancati, pensai che il dono che mi era stato fatto valeva pur la fatica, la speranza, di tutti gli anni in cui l’avevo attesa.
Trascorsi la prima notte dopo la sua nascita guardandola.                                                       I mesi seguenti non furono facili. Il meccanismo di autodifesa, che mi aveva permesso di non impazzire nel lungo periodo in cui avevo rischiato di perderla, mi impedì di amarla da subito.
Non la sentivo realmente. 
Il senso di colpa per non riuscire ad amare mia figlia come avrei dovuto, mi colpiva come una coltellata. 

In quei mesi il rapporto con mio marito piano piano declinò.
Il progetto, che ci aveva accomunato per tutti quegli anni, ora non esisteva più. 
Il traguardo prefissato era stato raggiunto.
Mi rendevo conto che ora, eravamo un bluff. 
La nostra coppia si era esaurita nel momento in cui eravamo diventati una famiglia.             Durante le prime settimane io e mia figlia ci studiavamo e imparavamo a conoscerci.
Non fu amore a prima vista neanche da parte sua. Dormiva poco, piangeva molto, sicuramente in astinenza da quei farmaci che ne avevano permesso la nascita, lasciandole in regalo una dipendenza fatta di mal di pancia e di un’insonnia che accompagnò insistente i suoi primi anni di vita. 
Imparammo insieme a essere una madre e una figlia.
Io mi prendevo cura di lei. Sara mi stringeva forte, facendomi capire che poneva in me la massima fiducia.
Non credo che sia istintivo per una donna diventare madre.
Penso che i meccanismi atavici, che permettono agli animali di prendersi cura dei loro figli automaticamente, non agiscano nello stesso modo per gli esseri umani. Almeno nel mio caso non funzionò così. La protezione iniziale si trasformò in amore poco a poco, e mi trovai ad amare Sara di un amore viscerale ed immenso soltanto con il trascorrere dei mesi.
Gli anni passarono. 
Presto non mi trovai più a spingere la carrozzina, con il passare del tempo la manina di Sara stringeva la mia mentre muoveva i primi passi.
Poi il mondo la reclamò come è giusto che sia;
ogni mattina, l’asilo nei primi anni, la scuola elementare poi, l’assorbirono, inserendo me in un turbinio ciclico di compiti, maestre, quaderni. Il nostro legame si rafforzava sempre di più e nulla sembrava minacciare il filo ormai robusto che si era creato tra noi.

Lei sino a un attimo fa era mia. Ora invece non so più chi sia.
Mi guarda dalle sue due spanne di altezza sopra la mia testa e so che mi giudica, pensando che io sia gelosa di lei, della sua gioventù.

I suoi occhi d’ambra incastonati in un viso bello e severo mi scrutano con altezzoso giudizio.
Il profondo ambrato dello sguardo di Sara mi riempie, bilanciando in me momenti di gioia e disagio al tempo stesso. Quando furiosa, urla che le rovino la vita impedendole di fare tutto ciò che vorrebbe, so che lo pensa davvero e non ho l’illusione che lo affermi solo per ferirmi. In quei momenti mi detesta; io non posso fare a meno di guardare la mia ex-bambina, pensando che sia cresciuta troppo in fretta senza che io fossi pronta. 

Due lineette nel test. Non posso crederci. 
Sono una vecchia.
Ho una figlia grande. 
Qualcosa non funziona. Ci deve essere un errore.
Sono una donna single, in un mondo in cui essere soli significa essere avanti, indipendenti e non ancorate a un uomo. Due maledette linee davanti a me.
No. Non voglio essere una nonna/mamma di mio figlio. 
Figlio? 
Anche questa parola ora ha un suono ridicolo. Io sono madre di una ragazza di quindici anni che, in piena crisi adolescenziale, mi vomita addosso la sua rabbia frustrata. Guardo il test maledetto, mentre le lacrime mi scendano dagli occhi, senza che io possa fermarle.

Fortunatamente Sara non è a casa e non può assistere allo strazio della mia idiozia. Mi sono arrogata il diritto d’insegnare a lei a badare a se stessa e invece, ora mi trovo io a essere in balia della mia stupidità. Non provo emozione ma delirio impotente.
Non posso tenere un figlio che non voglio. Non posso rendermi ridicola sino a questo punto. 
Tremante prendo il test; lo nascondo in un cassetto.
Sara non deve assolutamente immaginare che sua madre sia stata così incosciente da non avere protetto se stessa da un’evenienza controllabile, mentre predica regole sulla contraccezione.
Le lacrime continuano copiose a scendere.
Piango per me, per il figlio che non voglio e per Sara che ha una madre stupida.
Mi stendo sul letto e decido se è il caso di mettere al corrente il padre.
Ma padre di chi? Non esiste nessun padre perché non ci sarà nessun figlio.
La chiave nella serratura. Sara sta rientrando a casa. Sento la sua voce. Mi asciugo gli occhi.
Lei entra nella mia stanza. La sento preoccupata.
"Che succede mamma?” 
“Scusami non sto bene. Ho una colica.”                                                                                     Lei sembra più dolce e con voce turbata mi risponde. 
“Vuoi che chiami il medico?”                                                                                                   Mi si scioglie il cuore e trattengo il fiato.  
“No tranquilla. Sto già meglio.”                                                                                                                                  
Lei esce dalla stanza. Io aspetto che lei richiuda la porta dietro di sé e piango. Il buio mi lascia alla mia angoscia. Non posso avere quel bambino.
La mattina seguente prendo appuntamento con il medico.
Gli spiego la mia situazione e lui comprende. Poi basta un attimo, una domanda, e io non so più cosa fare: 
“Lei è proprio sicura di non volere questo figlio? Non è così anziana come dice. Se la natura ha permesso una gravidanza è perché il suo fisico può sostenerla. Inoltre, esistono esami che tutelano la sua salute e quella di suo figlio. Deve solo pensare se davvero desidera interromperla. È una decisone importante e non potrà più tornare indietro.” 
Lo guardo sbigottita. Mi ha chiesto se voglio questo figlio? No che non lo voglio, non posso volerlo. Non voglio però perderlo. 
Rispondo: “Non voglio interrompere la gravidanza.”
Il medico sorride imbarazzato. Mi congeda pregandomi di fare chiarezza dentro di me. 

Torno a casa.


Spero che mi aiuti la selezione naturale. Avevo così faticato quindici anni prima a concludere la gravidanza positivamente! Non sarà diverso ora. Probabilmente la gestazione si arresterà da sé.
Decido di non decidere.
Prevedo che tutto si bloccherà e la mia stupidità rimarrà solo teorica. I giorni passano. 
Non ne parlo con Sara. 
Ascolto il primo battito di quel piccolo affarino che si accanisce a restarmi dentro. Non lo desidero e quindi non posso amarlo. 
Ho l’obbligo di essere realista e pensare a quel bambino come a un estraneo, che presto se ne andrà da sé. Non è un bambino. Mi rifiuto di considerarlo tale. I giorni passano, seguiti dalle settimane e non ho più tempo per decidere cosa fare.
Devo parlarne con Sara. Siamo io e lei. La mia famiglia è formata da noi due. 
Non oso dirlo a quella ragazza dagli occhi scuri sempre in tempesta. Mi deriderà; sarò lo zimbello suo, dei suoi compagni, dei suoi amici. Si arrabbierà e leggerò la mia stupidità nei suoi occhi. Perderò quel poco di autorevolezza che ho conquistato con fatica. Eppure non ho scelta. Devo dirglielo. 
Mia figlia entra a casa. Stranamente non ha fretta. Si siede sul divano. Mastica una gomma mentre sfoglia un giornale.
 Prendo tempo, chiacchierando di cose futili, prima di trovare il coraggio d’ intraprendere l’argomento che mi sta a cuore. Lei mi risponde a monosillabi. Allora decido e vado al punto:
“Aspetto un bambino.”                                                                                                           Lei alza gli occhi; sgranandoli, li punta su di me. Dopo un attimo, convinta di non avere capito, sussurra: 
“Chi?”
 “Io” 
“Tu?”
 “Si”
 “Dai…”
 “Già.”                                                                                                                                         
Inciampiamo nelle sillabe che diventano più sonore di mille frasi.                                 Silenzio.
Un muro pesante di parole sue e mie che restano inespresse, mute nella gola.                     Alzo lo sguardo. I suoi occhi scuri sono tempestosi. Le leggo l’uragano dentro.                 Risponde. Le sue parole risuonano dure come un sputo: 
“Sei vecchia per avere un figlio.”                                                                                      Prendo coscienza di me stessa. Finalmente recupero il terreno che avevo perso nelle settimane precedenti; lotto per salvare il figlio che non voglio.                                  “Evidentemente non abbastanza vecchia.”                                                                             Sara mi guarda disgustata.
 “Non hai nemmeno un uomo!”                                                                                           Sento che non posso permetterle di calpestarmi.                                                               “Non importa. Ci sono io e ci sei tu. Non ci serve un uomo per avere un bambino.”            Lei mi scruta, beffarda e dice: 
Mamma ti prego, non copriamoci di ridicolo.”                                                                         Lo sapevo. Ancora prima che parlasse, sapevo che me lo avrebbe detto. Decisa rispondo: “Lui c’è. Nascerà.” 
Lei si alza dal divano e sussurra. 
“Può essere pericoloso…Sei così vecchia.”
Ripeto: “Non abbastanza.”                                                                                                     Lei scuote la testa e poi rassegnata dice:
“Fai come vuoi.”                                             
Esce di casa. Lo so che è arrabbiata ma io ho deciso. 
Non posso rinunciare a quel figlio che non desidero. Non posso semplicemente, pur non comprendendone la ragione. Sarebbe un attimo sbarazzarsene. Eppure ho lasciato che il tempo scorresse sino ad ora, perché quel figlio che non voglio, accanitamente sta dentro di me e io rispetto la sua tenacia. Lui non vuole rinunciare alla vita e si aggrappa a me. Io non posso, non riesco rinunciare a lui.                                                                                           Se penso ai mesi della gravidanza rabbrividisco. 
La gente, che man mano vedeva la mia pancia crescere, sorrideva alle spalle. Quarantacinque anni, single, con una figlia grande.
Sento i loro pettegolezzi risuonare: “Ridicola.”                                                              
 Leggo negli occhi di mia figlia il biasimo per avere una mamma stupida, eppure, a                volte osservo la sua preoccupazione davanti ai vari malesseri che la gravidanza via via mi arreca. Io e lei non parliamo quasi mai del bambino. 
Segno sul calendario appeso nella parete della cucina le varie visite e controlli a cui devo sottopormi. Ero certa che Sara non lo avesse mai guardato.
Mi sorprese quando una sera, a tavola, nella nostra silenziosa cena esordì:
“Chi ti accompagna a fare l’amniocentesi?”                                                                   Rimango interdetta.
Non credevo nemmeno che lei sapesse di cosa si trattasse realmente. Risposi: 
“Vado da sola.”                                                                                                        
 Lei con tono quasi imbarazzato, come facesse uno sforzo a mostrarsi gentile, rispose: “Verrò io con te. È pericoloso. Non puoi andarci da sola.”  
Oggi immagino quanto le sia costato quel momento di gentilezza.
La mattina seguente saliamo sul taxi. Silenziose in ospedale, attendiamo il nostro turno. Sara cerca d’intavolare una conversazione raccontandomi aneddoti scolastici.
Io apprezzo lo sforzo, concentrata però, sul terrore che provo.
Durante tutto l’esame, mia figlia mi rimane accanto. É lei a domandare all’ecografista, guardando il monitor, di che sesso fosse il bambino.                 
“Femmina." 
Sara sorride:
 “Avremo una bambina.”  
 Le stringo la mano. 
Avremo. Noi. Io e lei. Era la prima volta, da quando aveva saputo della mia gravidanza, che lei nominava la bambina. In quel momento penso che forse per la nostra stramba famiglia ci sia ancora una speranza. 

La gravidanza, a differenza di quella precedente sembra scorrere tranquilla.
Le contrazioni, che tanto mi avevano fatto penare quando attendevo Sara, non si manifestano. Mi domando come sia stato possibile per me restare incinta a quarantacinque anni dal momento che, prima di riuscire ad avere Sara, avevo atteso tantissimo tempo. Rifletto sulla parola che avevo tanto odiato. Infertilità; a causa della quale ero sicura di non correre rischi.
Penso raramente al padre della bambina che aspetto. La nostra non era stata una relazione vera. Mi domando quanto sia giusto da parte mia tenergli nascosta la gravidanza. 

Fortunatamente posso permettermi di crescere un figlio da sola. Ho la mia attività e dei collaboratori su cui contare. Il mio pensiero torna spesso agli anni in cui cercavo invano di avere figli. Rivedo Sara piccola; non posso fare a meno di domandarmi se sarò in grado di allevare la mia bambina da sola.  

 Il mio rapporto con Sara in quei mesi non migliora.
 Nessuna di noi due esce dal ruolo che si era scelta.
 I miei “No” si scontrano con le sue porte sbattute. Frequentemente mi rinfaccia di essere incapace di badare a me stessa e di averla resa ridicola agli occhi del mondo.                       Mi ricorda i miei discorsi sulla contraccezione e sul rischio di gravidanze indesiderate. Provo sentimenti contrastanti nei confronti della creatura che sta crescendo dentro di me.  Si è ripresentato l’automatismo della difesa.
Sono certa che accettarla non sarà facile, soprattutto ora che, a differenza di quando era nata Sara, sono una madre single. 
Non posso contare su nessuno. I miei genitori anziani non avevano accettato di buon grado la notizia dell’arrivo della nuova nipote. Il dialogo che avevo avuto con mia madre mi aveva ferita profondamente:
 “Sei rimasta incita a quarantacinque anni senza un uomo fisso? Bell’esempio che dai a tua figlia. Non venire a lamentarti se Sara non ti rispetta! “                                               “Mamma posso mantenere mio figlio da sola e non ho bisogno di nessuno.”   

Tutti intorno a me pensano che io sia una folle e, se il giudizio altrui per me è sempre contato poco, questa volta ne soffro anche per questa piccola creatura che ha deciso incoscientemente di prendere la vita da me. 
Piango spesso. 
Appesantita e invecchiata da quella gravidanza tardiva, non vedo l’ora di liberarmene. Spero che senza quel pancione assurdamente gonfio tutto si semplifichi.   
 I nove mesi di gestazione sono terminati.
Il medico che mi segue ha deciso di farmi partorire con un taglio cesareo, considerando i mie sbalzi di pressione. Sono terrorizzata. Sara lo è quanto me. É lei che mi accompagna in ospedale e imbarazzata sistema le mie cose nell’armadietto. È spaventata. Pochi minuti prima che l’infermiera mi venga a prendere, per condurmi in sala parto, noto le lacrime riempirle i grandi occhi scuri. Si avvicina a me e io la stringo con il braccio libero dall’ago della flebo.                                         
“Andrà tutto bene.”
 Lei sorride tra le lacrime e risponde:
 “Mamma ho tanta paura.”                                         
 Decido di non fingere e rispondo: “Anch’ io.”      
  
 L’infermiera giunge nel momento preciso in cui sto per scoppiare in lacrime.
 Ho una paura terribile; per me, per Sara e per la bambina che sta per venire al mondo.
 Mi rendo conto in quel momento, che non ho neanche deciso che nome dare alla nascitura. Questo la dice lunga sulla mia impreparazione a diventare madre.
 Saluto Sara e le dico: “Decidi tu il nome della piccola.”
 Lei, lasciando scorrere le lacrime sulle guance, mi sorride. Sono in sala parto. Mi addormento.
 Quando mi risveglio, per la prima volta vedo mia figlia. Non piange e mi fissa con due grandi occhi scuri, simili a quelli di Sara.
 Mi pare la creatura più bella del mondo.
 La stringo a me con le poche forze rimaste. Lei mi guarda come stupita, studiandomi e io mi sento inadeguata. La bambina viene portata via per controlli pediatrici di routine. Io vengo ricondotta in camera.
Sara è lì accanto a me e sorridendomi mi dice che la nuova arrivata era bellissima. Decide di chiamarla Gloria.          
         
 Il periodo che segue la nascita di Gloria non è semplice per me. 

Sono stanca, grossa e troppo depressa, per occuparmi con gioia della mia bambina. Faccio tutto controvoglia e non riesco a fermare le lacrime che spesso, copiose mi bagnano il viso. Sara cerca di aiutarmi. 
Sovente nelle notti insonni della piccola Gloria, è lei a cullarla, cantandole le stesse nenie che io avevo cantato a lei quindici anni prima. Io e Sara ci scontriamo meno e in lei inizio a scorgere la splendida donna che sta diventando.
Il suo aiuto mi fa superare il periodo post parto. 
Finalmente recupero un po’ di serenità. Mi rendo ancora una volta conto che l’amore non è connaturato in una madre. Protezione, affetto sono istintivi ma l’amore va costruito passo dopo passo.
 L’amore deve accadere.
 Questa volta, nonostante le difficoltà, m’innamoro di Gloria attraverso gli occhi di Sara; l’ambra gioca un ruolo quasi magico. 
Lei nella sua innocenza si lascia conquistare da ogni sorriso e da ogni gorgoglio di Gloria. 
Io mi innamoro di mia figlia minore pian piano, sino a scordare l’indifferenza iniziale e la nostra sgangherata famiglia, tra alti e bassi, proseguendo il suo cammino… la cenere è scomparsa.

E trascorrono tredici anni da allora...

 “No! Mi dispiace ma assolutamente non puoi andare a ballare sabato sera. Ti rendi conto di quanti anni hai?”      
 Gloria mi guarda irosa e so che ora inizieremo l’altalena di:“ Sono grande ormai. Non mi capisci. Sei troppo antiquata. Io ho la sfortuna di avere una madre vecchia e obsoleta.”

 Non mi arrabbio, né cado nello sconforto. Ognuno ha i suoi ruoli da sempre e mentre mi inerpico sulla strada che già conosco, guardo mia figlia Sara che ormai è una donna, sorridere…Allungo la mano verso di lei e per qualche attimo ce la stringiamo davanti allo sguardo sbigottito di Gloria che dice: 

“Ho tredici anni. Dico tredici! Voi due mi trattate ancora come una bambina. . .” 

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